giovedì 10 gennaio 2013

«Ci fu trattativa tra Stato e Mafia»: finalmente la politica ammette il segreto di Pulcinella: ora tutti i bugiardi di professione e i complici chiedano scusa al Paese e alla Procura di Palermo

Il discorso di Pisanu in commissione Antimafia è di quelli che saranno ricordati nei prossimi anni per coraggio e voglia di verità senza compromessi. E uno di quelli che in molti faranno finta di non ricordare. «Noi conosciamo le ragioni e le rivendicazioni che spinsero Cosa nostra a progettare e ad eseguire le stragi, ma è logico dubitare che agì e pensò da sola», scolpisce il parlamentare a futura memoria. C’è dunque spazio per il dubbio, il sospetto è più che legittimo e sopportato da vicende sanguinose ed enormi che gli italiani aspettano di conoscere da vent’anni. Sete di giustizia e di verità da cui Pisanu, rara avis di una classe politica preda di un garantismo peloso e di una smemoratezza dolosa, non fugge, in virtù di un discorso schietto e veemente. «Possiamo dire che ci fu almeno una trattativa tra uomini dello Stato privi di un mandato politico e uomini di Cosa nostra divisi tra loro e quindi privi anche loro di un mandato univoco e sovrano. Ci furono tra le due parti convergenze tattiche, ma strategie divergenti: i carabinieri del Ros volevano far cessare le stragi, i mafiosi volevano invece svilupparle fino a piegare lo Stato». Ora che anche un personaggio del calibro istituzionale di Beppe Pisanu lo dice chiaro e tondo sulla base delle migliaia di carte analizzate dalla commissione Antimafia, sarà difficile controbattere per i negazionisti di professione. Quanti da anni si indignano nei talk show contro le Procure che vogliono riscrivere la storia, prendano dunque atto: nonostante non si fossero degnati di prendere atto di una miriade di evidenze processuali, la storia non è stata riscritta da nessuno. Semplicemente perché non può essere riscritta una storia che non è mai stata raccontata. E abbondantemente occultata da scribacchini in malafede e attori smemorati che hanno preferito dimenticare, se non depistare.
A conclusione dell’inchiesta sulle stragi del 92-93 da lui presieduta, il parlamentare sardo afferma che «sembra logico parlare, più che di una trattativa sul 41bis, di una tacita e parziale intesa tra parti in conflitto». Ci furono dunque obiettivi differenti, spiega dunque Pisanu, ma è innegabile che Stato e mafia trattarono da pari a pari, e che nonostante una certa resistenza delle istituzioni al papello, il potere ricattatorio della malavita organizzata fu lungamente subito, o per lo meno accreditato al tavolo dei colloqui con le istituzioni. Si voleva far deflettere lo Stato, anche se ancora non è chiaro il limite oltre il quale non volle spingersi. «Piegarlo fino a qual punto? All’accettazione del papello o di qualche sua parte?», si domanda Pisanu, che su questo pare convinto che «a rigor di logica e a giudicare dai fatti, non si direbbe. Se Cosa nostra accettò una specie di trattativa a scalare, scendendo dal papello al più tenue contropapello e da questo al solo ridimensionamento del 41bis, mantenendo però alta la minaccia terrificante delle stragi, c’è da chiedersi se il suo reale obiettivo non fosse ben altro: e cioè il ripristino di quel regime di convivenza tra mafia e Stato che si era interrotto negli anni Ottanta, dando luogo a una controffensiva della magistratura, delle forze dell’ordine e della società civile che non aveva precedenti nella storia. Certo, l’obiettivo era ambizioso, ma il momento, come ho già detto, era propizio per la mafia e per tutti i nemici dello stato democratico». Il presidente della commissione Antimafia non allude dunque allo Stato in sè, ma a dei pezzi deviati dello stesso che si sono arrogati il diritto di rappresentarlo con la cooptazione di superiori compiacenti pronti a deviare il corso delle cose in direzione di interessi spesso meschini.

giovedì 27 settembre 2012

I Taviani in corsa per l'Oscar: a Cesare quel che è di Cesare. Analisi di un film antishakespeariano e coraggiosamente nichilista


Soverchiava anche le immaginazioni più fervide, la speranza che un docu-film di ascendenza teatrale, girato in un sussiegoso bianco e nero senza attori professionisti e distribuito in una quarantina di sale d'essai carbonare, potesse entrare nel novero dei film stranieri che si contenderanno l'Oscar nel rutilante baraccone hollywoodiano. Eppure Cesare deve morire dei fratelli Taviani ha varcato il Rubicone grazie al trionfo di Berlino, e un successo internazionale crescente che ha già portato la pellicola in 71 Paesi del mondo. 

«Siamo felici ed è solo l'inizio di un bel viaggio. C'è tanta strada da fare», commentano i due con la consueta asciuttezza che li accomuna fuori e dentro il set a grandi maestri come Robert Bresson. Ma in fondo devono sapere bene anche loro che la candidatura agli Academy awards potrebbe trasformare la passerella al Festival di New York, dove sono in concorso, in una sorta di prequel. Un eventuale successo di critica e di pubblico, spianerebbe ai fratelli la strada verso il capitolo più importante di una carriera straordinaria, cui è sempre mancata l'apice maledetto dell'investitura nazional-popolare. Per non tacere che un trionfo darebbe requie a un piccolo drappello di critici e spettatori, ormai incanutito nell'attesa che Paolo e Vittorio venissero finalmente insigniti del giusto riconoscimento planetario.Cesare deve morire non è certo l'unica delle opere sublimi firmate dal duo in più di mezzo secolo, ma è tra queste la sola che può riuscire nell'impresa di diventare un classico della cinematografia mondiale, non solo per i polverosi archivisti del cinema più prezioso e sommerso, ma anche per il grande pubblico che potrà trovarvi forse un orizzonte inedito, differente da quello angusto della seconda opportunità che da sempre è abituato a vedere. 

Sarebbe sin troppo facile rilevare come il Cesare rappresenta per i Taviani il dado che rotola via a margine di un'intera carriera. E si potrebbe dire che con quest'opera il sodalizio abbia lasciato da canto i sapori calligrafici di cui qualche stolido si è doluto a proposito di episodi come Padre padrone, Le affinità elettive e le colte riletture pirandelliane di Kaos e Tu ridi. Avrà persino buon gioco qualche acerrimo fustigatore del loro presunto malcostume, che ne ha denunciato con sprezzo l'impegno politico di fede repubblicana dando prova di sconfinata asineria rispetto a quella piccola costola del nostro cinema più alto di sempre, che si chiama neorealismo e non è certo materia inerte da telefoni bianchi. Ma la verità è che le ossessioni di una carriera, dal pedinamento zavattiniano al farsi della storia shakespeariano, dall'Erma bifronte di Pirandello allo straniamento brechtiano, con il Cesare deve morire si fondono insieme nell'opera più perfetta della loro carriera. Imbattutisi tra i detenuti di Rebibbia, in mezzo a carcerati impegnati in un laboratorio teatrale di stampo rieducativo, i fratelli Taviani hanno stravolto tutto. E non solo perché hanno destrutturato il Giulio Cesare di Shakespeare ribaltandone la concezione storica che presiede ogni suo dramma, ma anche per il fatto che hanno saputo trasformare la vita in teatro in maniera talmente assoluta, che i protagonisti della pellicola gridano più verità quando recitano, che quando tornano prigionieri del triste ruolo di carcerati. Un tipico cortocircuito pirandelliano, si direbbe. Di cui però non ha neppure la sulfurea scaturigine dei sei personaggi di zio Luigi, ma l'impressionante straniamento della naturalezza. La stessa per la quale accade che a un prigioniero diventi facilissimo fingere, e assai più faticoso vivere esposto al disagio di una telecamera che schiva da uomo e insegue da teatrante senza storia. Ne deriva che da Rebibbia, luogo senza tempo dove la storia non penetra, i Taviani escono portandosi via una tragedia anomala e impossibile, in cui il dolore impera e non fiorisce in catarsi. E seppure qualche corrivo ha scomodato a proposito dei Taviani la contemporaneità del Bardo così come mirabilmente argomentata da Jan Kott, si noterà che il concetto di attualità è più che sensato, ma secondo argomenti rovesciati. «Esistono», annotava il saggista in Shakespeare nostro contemporaneo, «due tipi fondamentali di tragicità storica. Alla base del primo sta la convinzione che la storia ha un suo senso, compie certi suoi compiti precisi e tende verso una determinata direzione. Tragico, in questo caso, è il prezzo della storia, lo scotto che l'umanità deve pagare per il progresso. Ogni innovazione che spinge innanzi l'implacabile rullo compressore della storia assume allora delle direzioni tragiche, ma proprio per questa sua natura precorritrice deve restarne fatalmente schiacciata». Ma nella cornice claustrofobica di Rebibbia, dove la storia è negata a molti dalla profezia eternamente compiuta dell'ergastolo, il meccanismo tragico che vede l'evoluzione della storia oliato dal sangue e dalla barbarie del nuovo si inceppa. 

La preveggenza di un mondo nuovo, che Shakespeare affida a sicari determinati ma ciechi che come le talpe amletiche scavano cunicoli attraverso cui si insinua la storia, nella Rebibbia dei Taviani inverte la direzione perché rovista tra le macerie affinchè la storia vi resti intrappolata in una nuova foggia. Non illumina - se non in pochi casi - un impossibile avvenire, ma solo la drammaticità di un passato irredimibile che perciò non riscatta il futuro, ma ne appesantisce la stazza gigantesca. Ed è per questo che Cesare deve morire realizza l'impossibile perfezione di una tragicità irrisolta, che apre un nuovo senso alla storia dei suoi personaggi, ma nega il progresso agli uomini che li incarnano. Nel momento stesso in cui cala il sipario, e le celle si richiudono dietro di loro, il terremoto della tragedia vibra sotto le loro brande, mentre la catarsi resta fuori dalle sbarre. Non l'avremmo saputo dire meglio, rispetto alla perenne zoppia che separa la teoria dal fatto, di uno dei protagonisti dell'opera. Chiuso in gattabuia, nell'epilogo del film, "Cassio" sussurra la sua epigrafe: «Da quando ho scoperto l'arte, questa cella è diventata una prigione». Frase rivelatrice, che dice ancora una volta come i Taviani siano riusciti ad andare oltre il buonismo di maniera di altre opere pedagogiche, per catturare il dramma senza infingimenti. Lontani dalle speranze rieducative che ogni laboratorio teatrale porta con sé, i fratelli di San Miniato mettono in effigie la scomoda verità di una catarsi impossibile. L'attore tragico, insieme superstite e prototipo di un uomo nuovo, torna nella sua cella ancora più distante da quel mondo di cui solo ora avverte a pieno la separatezza. 

Ed è qui che la splendida disperazione degli antieroi dei Taviani, sterza verso il cinema puro. Mentre il teatro accorcia i centimetri che separano gli uomini dagli uomini, il Cesare dei Taviani acuisce il distacco brutale tra attori e spettatori, e dunque tra attori e mondo. Così che nel momento di massima fusione tra pubblico e teatranti, arriva al culmine il senso di un strappo irreparabile. È accaduto frattanto che gli attori abbiano trovato sì nelle parole di un genio vissuto cinque secoli fa, i demoni che hanno popolato le loro storie. Un groppo alla gola che in qualche caso li rende muti, perché gli impedisce di recitare ciò che hanno provato davvero. Uomini d'onore, parole date e mai tenute, congiure, l'assassinio del capo supremo a nome di un gruppo che insegue il potere e il destino con spietata cecità. Le parole di Shakespeare restituiscono occhi e bocca a questi antieroi che hanno fatto loro il dramma nelle viscere della malavita. E qui non deve sfuggire neppure l'enorme provocazione che i Taviani accettano di lanciare al loro pubblico. Lungi dal forzare pentimenti e giaculatorie a favore di telecamera, i fratelli lasciano a spietati criminali l'ardire di aver partecipato alla storia per riscriverla insieme ai tragici personaggi della Roma del Divo Giulio. Un vortice che li innalza e che insieme li affonda nell'abisso della colpa, che ci permette di riscoprire l'uomo anche nel reietto. È la magia del cinema, sospendere il giudizio. Fraternizzare con ladri e criminali senza pretenderlo per assunti, ma attraverso la vita stessa di cui sono tragici portatori. 

I Taviani ci impongono da maestri la meravigliosa perfidia del racconto e ribadiscono ancora una volta il segreto che muove il grande cinema: per raccontare è necessaria la provocazione della comprensione. Ed è ancora la settima arte a irrompere quando cala il sipario sul Cesare e la rappresentazione, dopo mesi di prove, è andata in scena ed è finita. Il testimone delle istanze partecipative del teatro, fatte di comunione e condivisione, di finzione che sfocia in realtà, schiva gli applausi e finisce tra le grinfie di quella tragicità costituente che è insita nel cinema. Dei buoni film si può dire che siano crudeli. Perché la verità ci inghiotte tra le sue fauci, solo per sputarci via quando la pellicola smette di girare nel rullo e la scoperta della finzione ci azzanna alla gola. Dove il buon teatro si conclude in matrimonio, il buon cinema sigla un divorzio senza ritorno tra attori e spettatori, e tra opera e pubblico. In questo senso il Cesare dei Taviani è un film che non può essere rivisto. (f.l.d)

giovedì 6 settembre 2012

Il ricatto dei coloni dell'Alcoa e il ridicolo liberismo all'amatriciana: quello che nessuno vi ha detto su Portovesme

Da Liberal 6 settembre 2012

Portovesme deve chiudere perché è uno degli stabilimenti Alcoa con i più alti costi di produzione, perché nel quarto trimestre del 2011 ha segnato perdite da 193 milioni di dollari a fronte di un utile di 258 milioni registrato nello stesso periodio del 2010, e poi perché il prezzo dell'energia, gestito in regime di duopolio da Enel ed E.on ha reso ormai insostenibile il business della produzione di alluminio in Sardegna, anche a causa di un quadro globale catastrofico che ha abbattuto del 27 per cento il valore del trading sui metalli, noto come indice Lme. Sono state addotte le solite inappellabili fatwe del libero mercato, a proposito dell'imminente sfacelo dell'impianto sardo. Numeri crudeli, in apparenza ineluttabili, che nello svelarsi celano però le più profonde verità in merito a una vicenda che sin dall'origine ha rappresentato invece la sistematica e indecente violazione dei sacri principi liberisti: gli stessi che si pretendono inviolabili quando si tratta di salvaguardare i dividendi altrui a scapito dei lavoratori, e che si accantonano con aria premurosa quando si tratta di scaricare sugli stessi i fallimenti privati. La vicenda dell'Alcoa, come quella di numerose altre privatizzazioni all'italiana, è il simbolo di un capitalismo all'amatriciana inficiato dall'intreccio perverso di cattiva politica, miopia industriale e bieco opportunismo elettorale. Perché oggi, a distanza di sedici anni dalla vendita della nostra Alumix al colosso americano, nessuno ha voluto ancora spiegarci perché, come denunciato a suo tempo dall'allora consigliere di An, Antonello Liori, gli stabilimenti della nostra partecipata dell'alluminio, valutati circa duemila miliardi delle vecchie lire, furono svenduti all'incredibile prezzo di 380 miliardi, senza contare i circa 600 miliardi di lire di capitale circolante che secondo Liori furono incassati dalla multinazionale. Ma non è tutto, perché a fare dell'Alumix l'affare del secolo, ci fu anche la straordinaria munificenza dello Stato italiano, che incassò sì i miseri 380 miliardi da Alcoa, ma si impegnò per giunta a pagare 1200 miliardi di lire di debito che gravavano sull'azienda. Basterebbe questo per farsi beffe di chi predica indefesso la dura legge della globalizzazione e del mercato che come la rupe Tarpea, decreta chi è degno di vivere e di morire. E invece la ridicola pratica neoliberista in salsa italico-coloniale, è proseguita nel tempo. Perché l'Alcoa ha deciso di chiudere, guarda caso, proprio quando i sussidi di Stato per alleviare i costi dell'energia elettrica sono stati sospesi a causa di un'infrazione europea. Dal 1995 al 2009, l'azienda americana subentrata alla Efim, ha goduto di un lauto rimborso sul prezzo dell'energia che gli italiani hanno pagato in bolletta dal ‘95 al 2005, e che non fu valutato come aiuto di Stato perché legato agli accordi raggiunti nel processo di privatizzazione. Ma quando nel 2006 gli aiuti furono prorogati, l'Alcoa godette di uno sconto di 172 milioni di euro per il 2006, di 158 per il 2007, di 210 per il 2008 e di 16 milioni fino al 31 gennaio del 2009. Cifre che sommate a quelle dei dieci anni precedenti arrivano alla stratosferica cifra di due miliardi transitati dalle tasche degli italiani al business privato dell'azienda americana. Non fosse che gli aiuti concessi dal governo in proroga nel 2004 e nel 2005 sono stati reputati illegittimi dalla Commissione europea. Ragione per cui, ancora oggi, la multinazionale deve allo Stato italiano, al di là di sconti e agevolazioni colossali, 328 milioni di euro di aiuti illegittimi che non ci sono mai stati restituiti, nonostante rappresentino una mancia simbolica, rispetto ai miliardi di Stato che noi cittadini abbiamo "investito" nell'alluminio sardo. Oggi la leader della Cgil, Susanna Camusso, fa sapere a proposito della vicenda Alcoa «che il nostro Paese non può permettersi di lasciar chiudere grandi imprese» e che «l'Italia senza industria non ha futuro». E il numero di uno di Confindustria, Giorgio Squinzi, commenta che «il problema è quello di avere una politica industriale chiara» e che il salvataggio dei lavoratori di Portovesme «è legata al costo dell'energia». Tutto vero e tutto giusto, certo. Ma allora qualcuno ci deve spiegare perché la nostra energia costa il 30 per cento in più che negli altri Paesi europei, perché in Sardegna Enel ed E.on spadroneggiano indisturbate imponendo tariffe maggiorate di dieci punti che secondo la Commissione europea sono ingiustificate, perché nessuno bussa alla porta di Alcoa in fuga e si faccia restituire parte dei regali quantificabili in 328 milioni di euro che ai migliaia dei prossimi disoccupati dell'impianto farebbero parecchio comodo. E soprattutto, nel giorno in cui il governatore della Sardegna, Ugo Cappellacci, lascia filtrare un tenue spiraglio a proposito dell'interesse degli svizzeri della Glencore, qualcuno deve dirci perché, una volta svenduta la Alumix, non si è per lo meno provveduto a rendere utile il sacrificio di un pezzo del nostro patrimonio, tentando di creare in Sardegna infrastrutture dignitose, trasporti efficienti e soluzioni energetiche sostenibili che avrebbero evitato il crac di 1770 imprese isolane. Cattiva politica e cattivo mercato in Italia corrono da sempre a braccetto, è vero. Ma immaginare un libero mercato senza politiche industriali, senza soldi veri da investire al di fuori del suicidio dell'austerity è un abominio. È il mercato che deve rendersi utile ai cittadini, e non i cittadini al mercato. Se l'Europa non se ne accorge, il disastro sarà inevitabile. A Portovesme come nel resto del Vecchio continente. (f.l.d)
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mercoledì 4 luglio 2012

Intervista esclusiva al direttore del Corriere dello Sport: «Italia umiliata dalla Spagna, queste celebrazioni della sconfitta sono ridicole»

Roma. Mai avrebbe pensato di ringraziare i giornalisti, ha detto Cesare Prandelli dopo essere stato infilzato da quattro brucianti banderillas spagnole. «La stima umana fa piacere, la critica come strumento violento è invece difficile da accettare». Tutto bello e tutto giusto. Non fosse che all'indomani della più terribile débâcle della storia del calcio in un torneo internazionale, il timore di non ricambiare tanta amorevolezza, abbia indotto buona parte delle firme sportive nazionali a trasformare la critica in uno strumento ancora più arduo da digerire: un set di pennellini per la manicure traboccante di smalti e oli addolcenti. Intendiamoci. Il nostro commissario tecnico si è meritato ogni oncia del rispetto che i tifosi e gli addetti ai lavori gli hanno tributato. Ha iniziato l'europeo così così, ha proseguito bene guadagnandosi l'etichetta di Mosè del nuovo tiqui taqua italiano e ha restituito credibilità a una nazionale che sembrava squagliata per sempre nell'afa del mondiale sudafricano. Ma soprattutto ha concluso malissimo, con una finale giocata in maniera indecente e grossolana, e gestita nel peggiore dei modi: l'unica cosa che in fin dei conti resterà negli annali, insieme al grottesco entusiasmo che ha accolto gli azzurri. Se Cesare Prandelli ringrazia i giornalisti, ne ha ben donde. Perché da uomo di spessore, come di rado accade nel calcio, il ct ha fatto molta autocritica, mentre la stampa si è limitata a consolarlo mettendosi sull'attenti come di fronte a Garibaldi ferito ad un gamba. Ai nuovi predicatori del miracolo azzurro (perché si è parlato di miracolo quasi fossimo il Gabon che realizza il suo sogno e balla tutta la notte perché chissenefrega del risultato) non si è unito per fortuna il direttore del Corriere dello Sport, Paolo De Paola, che da vero giornalista, sine ira ac studio, ha argomentato il suo disappunto per una finale buttata via che non fa onore alla nostra storia. «È vero», spiega a liberal il direttore, «si è avuta l'impressione che una squadra quattro volte campione del mondo come l'Italia, contro la Spagna sia stata colta da un'improvvisa tremarella». E anche lui, proprio come scritto dal nostro giornale l'altro ieri, manifesta stupore per le grida di giubilo che hanno accolto una squadra uscita dal campo con le ossa rotte, e le ceneri portate in processione tra gli osanna. Che cosa succede al nostro orgoglio, alla nostra memoria storica che almeno in ambito calcistico non teme confronti e non sopporta quindi certi penosi buonismi alla Candy Candy? Perché invece che perdenti, ci proclamiamo diversamente vittoriosi? «Da qualche tempo siamo sempre più assuefatti alla logica del meno peggio», commenta De Paola, «A tutti i livelli, dalla politica alla società, si è insinuata l'abitudine ad accettare di buon grado l'opacità, il risultato modesto. È un costume di pensiero che forse si addice a molti aspetti propri di questo Paese che affronta un periodo storico difficile, ma che non si attaglia affatto al nostro calcio. Quanto al pallone, l'Italia rappresenta una superpotenza. Siamo stati a lungo i migliori e orgoglio e fierezza sono gli ingredienti più tipici della nostra tradizione». Si può perdere, certo. E nessuno si sogna il ticchio di frignare. Ma farsi umiliare in questa maniera, quasi con un gridolino di piacere per le mazzate sul groppo, questo no, non ci può appartenere. «Il vero punto dolente è stato la finale: ci siamo arrivati da provinciale, e va bene. Ma da provinciale ne siamo anche usciti, e questo è inaccettabile», concorda il direttore. Ed è accaduto perciò che nonostante Dio perdoni ma la stampa italiana non sia mai parsa attrezzata alla bisogna, la mole enorme di sbagli commessi dal nostro allenatore si sia tradotta sui giornali in qualche tenero buffetto sulle guance di un amico sventurato: «Mannaggia Cesarino, se non ti si infortunava Thiago Motta...». Proprio lo stesso Thiago che nelle partite precedenti si era mostrato reattivo quanto un gatto di marmo infiltrato a una convention di topi insurrezionalisti che ordiscono un blitz nel tuo tinello. Entrato al minuto sessanta quando eravamo sotto due a zero, Motta ha rappresentato il simbolo di una resa senza condizioni. E il fatto che per di più si sia lievemente infortunato, diciamolo, non ci ha fatto certo gridare al destino cinico e baro: in fondo, con o senza di lui saremmo rimasti comunque in dieci. Ma l'ingresso funesto del brasiliano ha sottolineato anche l'errore più marchiano di Prandelli: la quieta rassegnazione alla sconfitta. «L'operazione Europei del nostro ct merita il massimo rispetto», chiarisce il direttore del Corriere dello Sport, Paolo De Paola, «perché ha restituito alla nostra rappresentativa dignità di gioco, ma la preparazione della finale è sembrata inficiata da un clima sin troppo festoso. Ci siamo congratulati prima ancora di scendere in campo, abbiamo detto "grazie comunque" ancor prima di giocarcela. Poi è arrivata anche la lettera dal Quirinale, che avrebbe avuto maggiore efficacia dopo la finale, e non prima. Diciamo che tutta questa gratitudine prematura può aver fiaccato la giusta tensione che serviva per affrontare la partita che a quel punto contava davvero». Un clima di sfiducia costruttiva, che forse ha incoraggiato il nostro mister a delle scelte incomprensibili, di cui lui stesso sembra essersi pentito. «Il debito di riconoscenza di cui ha parlato Prandelli verso alcuni giocatori», chiosa De Paola, «è stata l'ammissione di aver sbagliato formazione. Davvero ha mandato in campo gli undici uomini più in forma, come recita il solito ritornello che accompagna le scelte degli allenatori, oppure il ct si è lasciato condizionare da fattori che non sono compatibili con la semplice legge che prescrive di mandare in campo i migliori?». Onorevole per l'uomo, la confessione del mister danneggia il selezionatore ma anche il nume tutelare dello spirito collettivo di cui l'allenatore si era fatto ispiratore. «Non si può dire che tutti gli uomini in rosa sono ugualmente importanti e hanno il merito di giocare, se poi nel momento decisivo ne accantoni alcuni, tra l'altro molto in forma, per altri che hanno dato tutto e sono in evidentissima flessione», ragiona il direttore del Corriere dello Sport. «C'erano uomini che si erano mostrati guizzanti come Diamanti o lo stesso Giovinco, e che avevano mostrato un'ottima condizione come Nocerino. E invece gente come Chiellini e Marchisio aveva chiuso la semifinale sulle gambe. Perché non dare ossigeno e forze fresche a una squadra che aveva già speso tantissimo? Un'eventuale vittoria non avrebbe sminuito il valore di calciatori preziosi in quest'avventura. Al contrario, un buon turn over avrebbe sublimato lo spirito del gruppo che è stata l'arma vincente di Prandelli». Si è detto con troppa enfasi della superiorità spagnola. Ma in pochi hanno fatto notare che nel girone di qualificazione le furie rosse le avevamo matate eccome, e non erano certo parse creature discese dall'iperuranio anche per nostri meriti. «Abbiamo sbagliato clima e intenzioni, ma anche strategia», spiega Paolo De Paola, «nella prima partita contro la Spagna il centrocampo a cinque aveva ridotto moltissimo i margini di manovra spagnoli e ci aveva permesso rapide ripartenze. In finale, invece, ci siamo proposti insiegabilmente a quattro, dietro, sguarnendo un centrocampo già stremato fisicamente, nel quale gli uomini di Del Bosque hanno trovato modo di fare il bello e il cattivo tempo». E l'armamentario retorico nazionale, non ci ha risparmiato neppure questa volta i birignao sul crollo fisico. Ma visto che Real e Barcellona, e cioè la nazionale spagnola, sono arrivate anche quest'anno in fondo a tutte le competizioni, esiste forse qualche misterioso ritrovato che a Ovest di Roma impedisce lo sviluppo delle tossine? «La storia della condizione fisica lascia enormi perplessità», risponde il direttore, «possibile che un evento come gli Europei non sia pianificato in tutte le sue variabili da uno staff che lo organizza nei dettagli? Anche da questo punto di vista, come già detto a proposito della gestione psicologica della finale, mi pare ci sia stato un tracollo. Qualcosa che con termini tecnici, definirei piuttosto un vero "svaccamento". Di solito ci si adagia sugli allori quando si vince. È sbagliato, ma per lo meno ha senso. Ma a che cosa serve adagiarsi sugli allori di una sconfitta? «Il traguardo si raggiunge quando si taglia la linea, non quando ci si ferma a un passo», annota De Paola. «È la dura legge dello sport. Attenzione, la bellezza di aver ritrovato una nazionale attorno alla quale stringerci tutti insieme, rimane. Resta agli italiani il piacere di ritrovarsi in piazza tutti insieme, per una volta uniti in nome di qualcosa. Ma le sconfitte di questo genere non si magnificano, nè si celebrano. E in fondo, quando si tenta di fare della critica costruttiva, si rivendica con orgoglio la nostra tradizione e le aspettative che ci siamo guadagnati sul campo, e non per divina intercessione. Molti nostri lettori, tanti italiani, sono stati riconoscenti verso gli azzurri. Ma la passione per il gioco del calcio e per questi colori non li ha accecati. Si poteva perdere contro una Spagna che ha messo in fila tre trofei internazionali. E si poteva accettare la sconfitta, perché mai come stavolta la Nazionale ha espresso un'idea di calcio apprezzata all'estero e da noi italiani. Ma perdere così non è da noi, ed è giusto sottolineare che questa partita è stata buttata via con troppa fretta, dopo un grande lavoro. Prandelli ha sbagliato ma si è meritata la chance di guidarci ai mondiali». Tanta umiltà, tanti sogni roboanti realizzati, ci lasciano soltanto un paradosso. Perdere quattro a zero ed essere felici. Roba da Italietta. Niente di peggio che l'arroganza dell'umile. (f.l.d) Ti è piaciuto l'articolo? Vota Ok oppure No. Grazie Mille! Puoi votare le mie notizie anche in questa pagina.

venerdì 22 giugno 2012

NAPOLITANO PARLA DI ILLAZIONI, MA LA VERITA' E' CHE SU MANCINO IL COLLE E IL SUO STAFF HANNO MOLTE COSE DA DOVERE SPIEGARE


Roma. Presente alla festa della Guardia di Finanza all’Aquila, Giorgio Napolitano prova a parare i fendenti piovutigli addosso da parte della stampa a causa di una sua presunta ingerenza volta a proteggere Nicola Mancino dall’accusa di falsa testimonianza che la Procura di Palemo addebita all’ex ministro nell’ambito della trattativa tra Stato e mafia. Un contrattacco deciso, quello del Quirinale, che giunge non a caso proprio nel giorno in cui Panorama  svela che tra le intercettazioni scottanti che vedono Mancino invocare i buoni uffici del Quirinale, si possa ascoltare un paio di volte anche la voce dello stesso Napolitano. Il settimanale fa sapere che le telefonate in oggetto saranno distrutte, ma il capo dello Stato assicura che sulla vicenda è «stata alimentata una campagna di insinuazioni e sospetti sul presidente della Repubblica e sui suoi collaboratori costruita sul nulla». Ed ha poi aggiunto che «si sono riempite pagine di alcuni quotidiani con le conversazioni telefoniche intercettate in ordine alle indagini giudiziarie in corso sugli anni delle più sanguinose strage di mafia del ’92-’93 e se ne sono date interpretazioni arbitrarie e tendenziose e talvolta perfino manipolate».

Ma come si è arrivati a quella che Napolitano definisce una “campagna di insinuazioni”? La risposta, oltre che nei fatti quanto meno imbarazzanti di questi ultimi giorni, è da cercarsi a monte. In una domanda di verità, su quella terribile stagione delle stragi del ’90, che le istituzioni continuano ad evadere, nonostante il coinvolgimento ormai acclarato di alcuni pezzi dello Stato, forse deviati o forse no, nella trattativa. Il tourbillon che ha finito per lambire il Colle, comincia il 9 giugno scorso, quando l’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, viene raggiunto da un avviso di garanzia per falsa testimonianza  spiccato dai magistrati di Palermo. «Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose», dice il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti alla quarta sezione penale che svolge il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. In particolare, i magistrati sembrano molto scettici sulla versione fornita da Mancino a proposito della “trattativa”. Claudio Martelli ha infatti raccontato agli inquirenti di un suo incontro con Mancino nel luglio del 1992, in cui si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate dei Ros. Mancino però nega: «Abbiamo parlato di altro». Ma la Procura di Palermo diffida dell’ex ministro, anche perché, dopo aver negato a lungo di aver incontrato Paolo Borsellino il primo luglio del 1992, giorno del suo insediamento al Viminale, ritrova parzialmente la memoria durante le deposizione al processo Mori: questa volta fa sapere di non escludere di averlo incontrato.
Quale che sia la verità, nei mesi che precedono l’avviso di garanzia, l’ex ministro degli Interni tradisce una certa agitazione. E comincia un insistito pressing sul Quirinale, che lo vede in stretto contatto con il consigliere giuridico del Colle, Loris D’Ambrosio, dal 25 novembre 2011 al 5 aprile scorso. «Eccomi, io ho parlato con il Presidente e ho parlato anche con Grasso (il procuratore nazionale antimafia, ndr), gli dice D’Ambrosio  in una telefonata del 12 marzo 2012. Il consigliere si è infatti attivato perché Mancino gli ha chiesto un intervento per tirarlo fuori dall’inchiesta dei pm siciliani sulla trattativa. Non si sa a che titolo, visto che a nessun altro cittadino come lui è concessa questa prerogativa, Mancino sostiene infatti che i magistrati di Palermo e Caltanissetta e Firenze non si coordinano «e che arrivano a conclusioni contraddittorie fra di loro». D’Ambrosio gli preannuncia che intercedere è difficile, ma non sembra abbandonarlo a sé stesso. «Ma noi non vediamo molte... molti spazi purtroppo, perché non..., adesso probabilmente il Presidente parlerà con Grasso nuovamente... eh... vediamo un attimo anche di vedere con Esposito... (il procuratore generale della Cassazione, ndr)... qualche cosa... la vediamo insomma difficile la cosa, ecco...(...)». 

Che cosa preoccupa Mancino, lo dice lui stesso in un’altra intercettazione con D’Ambrosio. «No, perché poi la mia preoccupazione è ritenere che dal confronto con Martelli... Martelli ha ragione e io ho torto e mi carico un’implicazione diciamo sul piano processuale». Proprio quello che è effettivamente accaduto pochi mesi dopo. D’Ambrosio gli spiega che l’unica speranza si chiama Grasso, altrimenti non c’è niente da fare.
«Ecco, insomma, noi ecco, parlando col Presidente se Grasso non fa qualcosa, la vediamo proprio difficile qualunque cosa...», dice il consigliere del Colle a Nicola Mancino. Ma evidentemente, i consiglieri del Quirinale hanno la faccenda a cuore, perché il segretario generale della Presidenza della Repubblica, Donato Marra, invia una lettera al procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito chiedendogli informazioni «sul coordinamento delle inchieste fra le procure di Palermo, Caltanissetta e Firenze sulla trattativa». Mancino si dimostra preoccupato e vorrebbe che quella lettera restasse segreta. E D’Ambrosio gli spiega: «In realtà quello che adesso uscirà, se esce, esce la lettera del Presidente, esce la lettera di Marra a nome del Presidente. E cioè che gli dice: dovete coordinarvi. Tu Grasso, cioè, fai il lavoro tuo, ecco». Proprio come gli aveva prospettato D’Ambrosio, il procuratore nazionale antimafia è stato invitato dal Quirinale a “coordinare le inchieste”.  Con il beneplacito di Napolitano. «L’ha detto lui», assicura D’Ambrosio a Mancino, «io voglio che la lettera venga inviata, ma anche con la mia condivisione sostanzialmente».

Il 19 aprile, le promesse si traducono in fatti. Il nuovo procuratore generale, Gianfranco Ciani, convoca il procuratore nazionale Piero Grasso. Ma dal verbale ufficiale di quella riunione, emerge che Grasso non abbia nessuna sudditanza psicologica. «Il procuratore generale rimarca l’importanza della funzione di coordinamento investigativo e della coerenza delle iniziative d’indagine collegate...». L’inchiesta funziona benissimo così, dice in sostanza il procuratore, e non è scoordinata per niente. Ma ciò che colpisce è che Grasso va oltre: «Precisa di non avere registrato violazioni del protocollo del 28 aprile aprile 2011, tali da poter fondare un intervento di avocazione a norma dell’articolo 371 bis codice di procedura penale...». Avocazione? Perché mai Grasso parla di “avocazione”? Tuttavia il procuratore va avanti, non c’è nessuno stop.

A questo punto Mancino deve convivere con il suo rovello. Martelli sostiene di avergli detto che i Ros stavano trattando per conto dello Stato con Vito Ciancimino. Nella telefonata del 12 marzo dice a D’Ambrosio: «Lui (Martelli, ndr) dice, vedi un poco che quelli fanno attività non autorizzate, io non mi ricordo che lui me l’ha detto, ma escludo che me l’abbia potuto dire. Tuttavia, ammesso che me lo ha detto, perché se lui sapeva di attività illecite non lo ha detto alla Procura della Repubblica, lui che era Guardasigilli?». E poi si sfoga: «Ma che razza di Paese è, se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista. Tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so… io anche da questo punto di vista… o tuteliamo lo Stato oppure tanto se qualcuno ha fatto qualcosa poteva anche dire mai io debbo avere tutte le garanzie». Garanzie venute meno. Parole che fanno pensare a un patto tradito, a un compromesso “per il bene della Nazione”. È per questo che Mancino ha trovato così grande solidarietà addirittura in ambienti vicini al Colle? Illazioni, sospetti. Che questa storia, la storia di questo Paese, rende più che legittimi, doverosi. (f.l.d)
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giovedì 21 giugno 2012

«L'Italia semipresidenziale? Un'offesa alla Costituzione. Soltanto un brutto trucco del Pdl per far saltare la riduzione dei parlamentari»

ROMA. Eravamo rimasti a Berlino. E più precisamente al modello tedesco. Se non che d’improvviso, una conferenza stampa ha cercato di cambiare la strada maestra con tanto di gaffe semipresidenziale. Alfano aveva in cuor suo nominato il Cavaliere capo dello Stato con prodigo anticipo, e con procedure burocratiche di mirabile snellezza. Dal governo del fare, il Pdl aveva dunque traghettato lo stesso spirito futurista nello stretto delle riforme parlamentari. Così che la zattera della politica, minacciata dall’avanzata grillina, ora rischia di affondare sotto l’attacco di piccoli innocenti emendamenti che richiederebbero una quasi totale riscrittura della Costituzione. Operazione possibile? «Fino a pochi giorni fa», spiega a liberal il presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti, «sia pure con qualche difficoltà e diffidenza reciproca, le forze politiche sembravano aver intrapreso un percorso in grado di condurre in porto una soluzione elettorale e costituzionale finalmente coerente. Anziché partire dalla riforma elettorale per cambiare in maniera surrettizia le coordinate costituzionali, come più volte accaduto in passato, si era tentato questa volta di dar luce a una riforma complessiva dotata di una certa coerenza interna, che aveva trovato nell’ordinamento tedesco i suoi principi ispiratori. Nonostante qualche necessario adattamento al nostro dettato costituzionale, lo spirito della nuova architettura istituzionale guardava a Berlino ma senza dar luogo a stravolgimenti troppo drastici dell’attuale sistema parlamentare. Non c’era molto tempo, e al netto di qualche incertezza sette o otto mesi avrebbero potuto costituire un tempo di decantazione e di riflessione sufficiente per ridiscutere l’assetto istituzionale e giungere a un risultato condiviso». Finchè non si è verificato l’imponderabile. «È accaduto che il Pdl abbia presentato nei giorni scorsi, con una sorta di “proposta del predellino”, una serie di emendamenti finalizzati all’improvvisa e improvvisata istituzione di un sistema semipresidenziale, forse nel tentativo di sparigliare le carte», osserva il costituzionalista. Questa Italia dominata dal “culto della personalità”, è poi così adatta a una governance alla parigina?«Intendiamoci», annota il presidente emerito della Consulta, «il sistema semipresidenziale francese non va demonizzato perché ha dato ottima prova di sé in Francia, dove vige dal 1958. Ciò che colpisce è però il brusco cambio di direzione che in pochi giorni sposta la meta della riforma da Berlino a Parigi con soltanto sei mesi di tempo per cercare di discuterne. È troppo tranchant, e certamente non troppo ligio alle procedure previste dall’articolo 138 della Costituzione, pensare di avviare announa riforma istituzionale di questa portata depositando sei emendamenti direttamente in aula senza passare dalla Commissione. Ma a ben guardare, più che il metodo lascia perplessi il merito». Dal vizio formale, al vizio sostanziale il passo è breve. «Non si può pensare», ammonisce Piero Alberto Capotosti, «di passare da Berlino a Parigi come si trattasse di un’improvvisa deviazione nel corso di una passeggiata. L’elaborazione di un cambiamento tanto profondo dei dettami costituzionali richiederebbe un fitto coinvolgimento del mondo della cultura, del lavoro, dell’opinione pubblica, della società civile. La Costituente impiegò molto tempo nella scelta del sistema parlamentare. La storia ci insegna che le riforme epocali non si fanno con quattro emendamenti ». Pensare male fa bene, soprattutto alla de mocrazia. «Ci potrebbe essere il sospetto che si vogliano cambiare le carte in tavola», fa notare il presidente emerito della Corte costituzionale,«di far saltare il tavolo della riforma su cui si era trovata già una volontà condivisa per far sì che alcune misure particolarmente avversate come la riduzione del numero dei parlamentari possano essere accantonate con uno stratagemma». E inoltre, è poi così vero, che basta qualche emendamento, e la pillola va giù? Sul punto Capotosti è molto chiaro: «Gli emendamenti che guardano al modello semipresidenziale mal si conciliano con le riforme già messe in cantiere e rimetterebbero in discussione l’intero impianto già approntato con fatica dalle forze politiche nei mesi scorsi. Si tratterebbe insomma di ricominciare da capo, e di lavorare a un modello da riscrivere punto per punto». Questione di tempo, ma anche di opportunità. «Va detto che la riforma semipresidenziale comporterebbe un profondo rivolgimento della nostra Carta. E pochi mesi a disposizione fanno dell’eventuale operazione un vero azzardo. Toccare la Costituzione in zona Cesarini di solito dà luogo a veri papocchi come già ampiamente dimostrato dalla bocciatura della riforma del 2005. Dunque è più ragionevole pensare che si tenterà di far decadere la riforma costituzionale in senso tedesco, in favore di un aggiustamento di piccolo cabotaggio all’attuale Porcellum: resterebbe tale e quale, ma forse lievemente migliorato con la reintroduzione delle preferenze ». Un’opzione che introdurrebbe i numeri negativi negli indici di fiducia nei partiti. «Colmare il deficit di credibilità con le riforme istituzionali», conferma Capotosti, «è forse illusorio. Non può esserci mai fretta, quando si tratta di mettere le mani sulla Costituzione. Questo è semmai per le forze politiche il momento di cercare di capire il vero sentimento della nazione. E di agire di conseguenza. Poche cose, ma buone». Molto scettico, per lo meno sulla fattibilità reale dell’operazione semipresidenziale, appare anche Vincenzo Lippolis, docente di Diritto costituzionale alla Luspio: «È difficile pensare a un tale cambiamento a pochi mesi dalla fine della legislatura. E poi occorre pensare alle ragioni storiche che potrebbero giustificare un tale cambiamento. Ci sono? Ricordiamoci che la Francia giunse al semipresidenzialismo essendo aperta la drammatica crisi algerina e grazie alla figura di De Gaulle, un vero e proprio eroe nazionale. E comunque se la costituzione della V repubblica fu adottata nel 1958, l’elezione diretta del presidente fu stabilita solo nel 1962. In entrambe le occasioni a decidere fu un referendum popolare». Dall’eredità del Re Sole, ai trucchi del Re Sola.
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lunedì 11 giugno 2012

Il Sud di Fiorella, per tornare a vivere senza paura

«L’ispirazione mi è venuta leggendo il libro Terroni di Pino Aprile. Sono rimasta sconvolta
da come la storia dell’Unità d’Italia sui libri sia andata in realtà diversamente. E così ho
avuto la scintilla: dedicare un cd a tutto il Sud, allargandolo a Sud del mondo». Pochi
sanno che Fiorella Mannoia vanta delle origini che la riconducono a un paesino in provincia di
Palermo. E forse Terroni dev’essere stato come la sua madeleine. Lettura fortunata, che
le ha ispirato un album intenso nel quale il Sud si fa concetto di umanità, per sorvolare
beghe secessioniste e rudi campanilismi che hanno dipinto un Paese diviso, ricongiunto dal terremoto in un lampo più di quanto l'abbiano diviso scoppi e vaniloqui di un lungo ventennio.
 «Il Sud ha ovunque lo stesso comun denominatore: è sempre stato saccheggiato e depredato. In più il Sud è coinvolto nel fenomeno della migrazione, come ho cantato nel rap con Frankie hi-nrg mc, Non è un film. Tutti i popoli del Sud abbandonano la propria terra con dolore, lasciandone un senso di nostalgia». Ed è per questo che Sud, è come l’impossibile diario musicale che ogni migrante avrebbe voluto tenere: lontano dalla propria terra, ma vicino ovunque a una meridionalità pasciuta ad amarezza, assolata da un fuoco di musica e parole che è rimpianto e irresistibile fluire dentro il tempo. Niente di strano che Fiorella sia ispirata come non mai: scrive tutto da sola e tutto brilla di bellezza, a riprova di un album mai così coincidente con l’animo che lo dispiega. C’è l’approccio diretto e trascinante di Io non ho paura, le sonorità etniche di Quando l'angelo vola, il sublime arrangiamento di Torno al Sud firmato da Astor Piazzolla e poi un nugolo di suggestioni che sembrano cullare il pensiero e i suoi echi lungo le coste del Mediterraneo. Vibrante e raffinato al contempo, questo viaggio che varca l'equatore scioglie d'improvviso anni di gelo di un'Italia che oggi soffre di più, ma è tornata a sentire qualcosa battere con forza nel petto. Di questo Sud nutrito a lacrime, orgoglio e tanta forza, oggi dobbiamo essere grati a Fiorella. Lo ha restituito a tutti quelli che ormai lo sognano da lontano. E a chi lo vive con coraggio ogni giorno.